Layout: disposizione e interpretazione
Layout è per il design ciò che per la pittura è composizione; il termine inglese viene infatti utilizzato in riferimento alla disposizione con cui gli elementi sono collocati nello spazio. Ma in che modo tale disposizione è in grado di comunicarci qualcosa? Quali regole fanno sì che il suo sia un linguaggio realmente comprensibile?
Le nostre predisposizioni biologiche e le consuetudini radicate che ci vengono dalla famiglia e dalla società in cui cresciamo, ci permettono non solo di guardare il mondo che ci circonda, ma anche di interpretarlo.
Siamo in grado di interpretare le forme perché il nostro cervello le tratta come se fossero cose della realtà. Le cose osservate hanno quindi un significato perché siamo noi stessi a darglielo, e il nostro guardare, come sostiene Riccardo Falcinelli nel suo Critica portatile al Visual design, è sempre un guardare esperto: abbiamo già delle idee in testa, oltre che attitudini percettive e ragioni colturali inestricabili.
Tali elementi, guida all’interpretazione, sono gli stessi di cui il layout si serve per organizzare figure in una disposizione realmente capace di comunicare. In tal senso è perciò molto difficile riuscire a parlare di layout universali (interpretabili da tutti allo stesso modo); sarebbe più giusto dire che un esperto di comunicazione visiva, per la realizzazione di linguaggi comprensibili, dovrebbe essere in grado di mettersi negli occhi e nella cultura di chi guarda le cose con una formazione differente dalla sua.
Pertanto non si può nemmeno parlare di seguire vere e proprie regole, piuttosto di tenere conto di vari assunti che noi stessi mettiamo in atto di fronte alle figure: un miscuglio di predisposizioni cerebrali e convenzioni culturali.
Di seguito proveremo ad individuare e definire alcuni di questi assunti.
1. Inquadrare
Guardare o vedere, la differenza sta nell’attenzione
Quando osserviamo qualcosa in realtà inquadriamo, cioè prendiamo in esame una porzione della realtà che abbiamo davanti circoscrivendola in una cornice. Questo accade perché guardare non significa vedere.
La nostra conoscenza consapevole è limitata: non siamo consapevoli in ogni momento di tutto ciò che i nostri occhi registrano e la spiegazione risiede nel ruolo che gioca l’attenzione nella percezione consapevole; è infatti possibile prestare attenzione e memorizzare solo un numero esiguo di informazioni alla volta. In pratica, senza attenzione non esiste consapevolezza nella percezione.
Numerose ricerche riconoscono uno stretto collegamento tra memoria e attenzione sia perché le informazioni in memoria tendono ad attrarre la nostra attenzione, sia perché le informazioni a cui si presta attenzione vengono automaticamente portate nella memoria.
La memoria a cui si fa riferimento è quella a breve termine strutturata sia per informazioni da tradurre in formato verbale sia per quelle prettamente spaziali; in entrambi i casi la capacità è di 4 o 5 elementi, anche se per la componente verbale il numero può essere leggermente superiore (R. Dell’Acqua, M. Turatto, 2006).
Inquadrare: scegliere cosa vedere
Pertanto, ciò che riusciamo veramente a vedere è ciò che finisce sotto la nostra attenzione, che in termini fisici potremmo immaginare per l’appunto proprio come una cornice, frame o inquadratura che definisce lo spazio di azione da vedere (campo), o, in altre parole, il grado zero del layout (R. Falcinelli).
Di inquadratura si parla soprattutto in ambito fotografico poiché utilizzata per scegliere una porzione del visibile. Il formato più noto è il rapporto 3/2, ciò significa che se un lato misura 10 cm l’altro misurerà 15 cm, poiché 10 x 3/2 = (10:2) x 3 = 15. Non è un caso che questo sia stato il formato per eccellenza e ad oggi ancora il più diffuso: esso rispecchia grossomodo lo spazio che possiamo vedere guardando dritto davanti a noi. Solitamente le inquadrature possono essere di due tipi: orizzontale e verticale.