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Case study – “Biodiversità 5.0: da Ipazia a Samantha”

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Spazio-bianco-logo
Il logo dallo spazio bianco alla distanza

Quello che stiamo affrontando da più di un mese a questa parte, è senza dubbio il più grande problema sanitario, sociale ed economico della nostra epoca. La mancanza di vaccini, la velocità di contagio… ci hanno costretti alla quarantena. Bloccati dal forzato distanziamento sociale, siamo ricorsi ai social, unico mezzo di contatto con gli altri, in grado di accorciare le distanze e di farci sentire, nella condivisione, anche meno soli. Ed è il canale social che la comunicazione ha sfruttato maggiormente per sensibilizzare l’opinione pubblica. Lo hanno fatto in molti, comprese grandi aziende che hanno messo a disposizione il loro bagaglio di valori e credibilità per svolgere quel ruolo sociale che la fidelizzazione conferisce loro. Molte lo hanno fatto con campagne mirate, altre addirittura dando la parola al re-design del proprio logo. Ma perché proprio il logo?  Si tratta forse di una scelta casuale? E perché poi il logo riesce a colpirci così nel profondo? Potremmo partire dalla semplice proporzione logo : azienda = occhi : anima[1].

Come gli occhi sono specchio dell’anima[2], anche il logo, uno dei requisiti più importanti dell’identità aziendale, elemento di riconoscimento e memorizzazione, è specchio di un mondo di valori tangibili e intangibili. È al logo che viene riconosciuto il ruolo di strumento di comunicazione in grado di esprimere l’attività di branding che, definendo l’immagine aziendale con l’avvalersi di simboli e nomi, circoscrive quel mondo di valori che la caratterizzano. «Se il logo non riesce a comunicare ciò che l’azienda rappresenta è un’opportunità sprecata»[3], ma per riuscirci deve avvalersi del potere[4] dei simboli. Prima ancora di realizzare i suoi lavori più famosi, lo stesso Paul Rand[5] identifica proprio nel simbolo il mezzo[6] di comunicazione tra designer e spettatore: «un’immagine universalmente comprensibile, che traduce idee astratte in forme visive […] segno visibile di qualcosa invisibile, come un’idea […] una rappresentazione che non è riproduzione»[7].

Gli studi di Maryanne Wolf specificano che il nostro cervello non è fatto per leggere: le parole per lui altro non sono che immagini, e leggere è «riconoscere forme che si articolano nello spazio»[8]. Così, «mentre gli occhi leggono o guardano, il nostro cervello formula velocemente ipotesi: crea associazioni e interpreta ciò che vede secondo le sue esperienze e i codici culturali cui è abituato»[9]. Forme, come quelle dei loghi, per l’appunto, fatte di simboli, composti da segni in configurazioni significative definite dalla posizione che occupano nello spazio. Ed è la componente spaziale, così determinante nell’individuazione di significati, che diviene per Jan Tschichold[10] uno dei principi fondamentali[11] non solo della tipografia ma anche del design. Il più noto spazio bianco[12] della grafica diviene «elemento attivo e non solo sfondo passivo»[13], simbolo di pausa[14] e soprattutto forma tra le forme.

È per questo che il logo, frutto di forme, si carica di significati, veicolando valori e suscitando fiducia; e che poi agisce, mutando la sua forma, poiché come Paul Rand sosteneva «non è ciò che sembra, ma ciò che fa a definire un simbolo». E noi lo ascoltiamo quando agisce usando quel potere di simbolo, mentre espande oltre misura il suo spazio bianco per trasmettere un semplice e chiaro messaggio: distanza, a distanza, mai come prima.

Come fa Audi che, con l’animazione in cui i suoi famosi cerchi si allontanano e poi intrecciano di nuovo, sembra suggerirci: State distanti, ma restate uniti; o come Coca Cola che in Times Square accompagna, a quello originale, un logo alternativo che scandisce con risolutezza uno spazio dilatato, quasi sospeso; oppure Kappa, che mette le sue figure femminili già di spalle a distanza di sicurezza: un centimetro che vale quanto un metro; o come Mercedes ,che stacca la sua stella centrale dal cerchio, quasi a dirci di tenerci a una distanza tale che pur aprendo le braccia ci impedisca di toccarci.

Ma si sa, da sempre i loghi hanno subito re-design importanti per rebranding aziendale, per abbracciare nuovi valori, cavalcare nuove mode o riflettere i cambiamenti sociali, proprio come quello che stiamo vivendo. E adesso, come mai prima, quando il nostro sguardo afferra la forma di quello spazio, distanza è ciò che legge in esso. Perché in quella forma, «intensificata dall’associazione che noi facciamo»[15], adesso, come mai prima, lo spazio diventa simbolo di distanza, universalmente riconosciuto, perché universalmente condiviso e universalmente vissuto.


[1] Proporzione matematica: il logo sta all’azienda come gli occhi stanno all’anima
[2] Non si tratta solo di un modo di dire, presente in molti testi di letteratura come Jane Eyre di Charlotte Brontë, ma anche un concetto ampiamente teorizzato in psicologia che vede nello sguardo l’elemento di sintonizzazione col mondo interiore di una persona (Jacques Lacan)
[3] B2B Brand Management, Springer, 2010 (P. Kotler, W. Pfoertsch), <www.books.google.it>
[4] B2B Brand Management, Springer, 2010 (P. Kotler, W. Pfoertsch), <www.books.google.it>
[5] Paul Rand (1914 – 1996), famoso per loghi come IBM e ABC, definito dai suoi ammiratori il “Picasso del Graphic Design” è stato riconosciuto come uno dei più influenti designer della storia della stampa, ed è stato nominato uno dei 10 migliori Art Director della storia dal Museum of Modern Art di New York
[6] Thoughts on Design, Chronicle Books, 1947 - Edizione Kindle (P. Rand)
[7] Thoughts on Design, Chronicle Books, 1947 - Edizione Kindle (P. Rand)
[8] Proust e il calamaro. Storia e scienza del cervello che legge, Harpel Perennial, 2000 - Edizione Kindle (Maryanne Wolf)
[9] Language design, Apogeo, 2017 - Edizione Kindle (Yvonne Bindi)
[10] Jan Tschichold (1902 – 1974) è stato tipografo, scrittore, designer e insegnante tedesco, uno dei principali teorici della tipografia e della progettazione del libro del Novecento
[11] Die neue Typographie, 1928 (Jan Tschichold)
[12] Lo spazio in grafica viene definito “spazio bianco” in relazione al colore che tipicamente contraddistingue le pagine, ma viene chiamato anche “spazio vuoto” o “spazio negativo”
[13] Die neue Typographie, 1928 (Jan Tschichold)
[14] Significato dello spazio bianco in tipografia secondo il tipografo J. Tschichold
[15]Thoughts on Design, Chronicle Books, 1947 - Edizione Kindle (P. Rand)


Sitografia
www.stateofmind.it
www.wombo.it
www.grafigata.com
www.insidemarketing.it
www.books.google.it

Articoli web
Loghi famosi: storia, miti e segreti di alcuni dei brand più noti (Raquel Baptista), <www.insidemarketing.it>
Cosa è il Logo? Definizione, spiegazione e differenze, <www.wombo.it>

Bibliografia
B2B Brand Management, (P. Kotler, W. Pfoertsch)
Thoughts on Design (P. Rand)
Proust e il calamaro. Storia e scienza del cervello che legge (Maryanne Wolf)
Language design (Yvonne Bindi)
Die neue Typographie (Jan Tschichold)

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